Sull'evaporazione della scuola. Tra dad e desiderio

Laura Grignoli

Nina ha 15 anni e marina la scuola. Virtualmente. Sì, la scuola in presenza è sospesa causa covid. Lei marina il collegamento.

Silvia ha dodici anni e fa la seconda media. Anche lei frequenta in dad, ovvero con didattica a distanza. Mi dice che è meglio, cosi non incontra quelle iene delle compagne di classe che la bullizzano. Chi non la bullizza la snobba. Non ha l’amica del cuore e si confida in videochiamata con sua cugina. Ma questa non la vuol sentire perché troppo tragica. Ho un problema -mi dice per minimizzare le conseguenze dello stato emotivo e non fare la tragica come le direbbe la cugina- Non riesco a finire i compiti prima della mezzanotte... e non perché sono troppi. Mi distraggo, non mi appassiono.

Asia ha 17 anni, terzo superiore e terzo istituto cambiato. Non si trova bene in nessuna scuola. Con dovizia di dettagli esprime le cose che non vanno in ciascuna scuola. Anche lei ora segue in dad e solo dopo un mese la madre ha scoperto che non 'frequenta'. Non si connette.  O, forse sì, ma non con la classe. Assente ingiustificata.

Viola fa la seconda media, si collega regolarmente tutti i giorni, ma non esegue i compiti, non si fa interrogare causa improvvisi quanto provvidenziali disturbi alla linea telefonica e dice un mucchio di bugie ai genitori quando le chiedono come va la scuola.

Basta, non cito altre situazioni perché in fondo tutte si somigliano. Hanno peró un comune denominatore: problemi scolastici e adolescenza.

Il momento che stiamo vivendo col coronavirus e che evidenzia tanti problemi scolastici sta facendo da cassa di risonanza di molti altri problemi dei ragazzi. E non solo. Mi chiedo se i problemi che denunciano siano da imputarsi alla dad o se il sintomo scuola sia la solita forma di protesta per denunciare altro. Anzi, per evidenziare qualcosa, le difficoltà del cambiamento per esempio. Cambia il corpo, cambia la mente. Non ci si riconosce.

 La scuola è sempre stato un termostato eloquente di disfunzioni soggettive e collettive/istituzionali.

Per prima cosa (inizio dalla cosa positiva) significa che la scuola è ancora importante. La scuola non è morta come predicava Ivan Illich negli anni ’70 o John Holt fondatore delle homeschooling e unschooling. Bisogna riconoscere che anche senza prevedere il coronavirus precorsero i tempi del fare scuola da casa…

Se la scuola fosse morta, sarebbe decretata dall'indifferenza. Come in una coppia che litiga finché ci si riversa aggressività vuol dire che un sentimento circola ancora. 

Non è il caso di affrontare il problema dei ragazzi su citati con una analisi del profondo soggettivo e insondabile di ciascuno di loro. Preferisco porre come oggetto di riflessione la scuola. Se la dad funzioni o meno lo sapremo quando si riprenderà la frequenza di persona e i nodi della preparazione verranno al pettine. 

Il desiderio di scuola, semmai ci sia stato, che fine ha fatto?

Io ho frequentato la scuola quando non era obbligatoria. O, se non erro, era obbligatoria fino alla quinta elementare. Ricordo di aver dovuto sostenere un esame di ammissione (cioè dimostrare con esami scritti e orali che ero abbastanza attrezzata per proseguire gli studi) per iscrivermi al grado successivo di studi. La scuola media non c'era in tutti i nuclei urbani. Chi poteva andare a scuola al capoluogo si sentiva un privilegiato. E lo era. La scuola era dura. Non era alunno-centrica, bensì fondata sui programmi da svolgere. Dewey dall’America, bacchettandoci, ci provava a farci capire che era il bambino a dover essere svolto, non i programmi. Che dire: l’alfabetizzazione superava il diritto al rispetto dei tempi di apprendimento di ciascuno!

Ricordo ancora l'angoscia davanti alle declinazioni latine e alla perifrastica da imparare già dalla prima media insieme all'Iliade e all ' Odissea, edizioni integrali, da parafrasare rigo per rigo.

No, non sono una nostalgica della vecchia scuola, né seguace dei ‘descolarizzatori’ su citati. Mi chiedo perché fosse così sentito l’impegno allo studio nonostante. Molto credo fosse dovuto all'autorevolezza che riconoscevamo ai nostri insegnanti-pungiball, a cui indirizzavamo nell'intimo le peggio cose, ma il cui giudizio costituiva l'asticella da saltare.

Spero di aver lasciato capire tra le righe di questo preambolo quello che maggiormente mi interessa: a cosa dobbiamo questo decadimento della scuola? La scuola non è morta, ma non sta troppo bene.

Il desiderio di ottenere a fatica qualcosa che non era scontato e il sentirsi privilegiati occupava un ruolo fondamentale nel corrispondere in termini di impegno e buoni voti il prezzo dovuto.

E neanche sono d'accordo con coloro che sostengono che la scuola annoi, come se per impegnarsi la scuola debba (per forza) piacere.

Andare (ed esserci veramente) a scuola deve includere l'idea di sforzo. Non si va con la leggerezza con cui si va al cinema o al circo. Insomma per me il desiderio non si nutre di tanto piacere quanto piuttosto di mancanza. Anzi questa è la condizione perché il desiderio esista. 

Se (il desiderio) non coincide con la ricerca di divertimento certamente include la ricerca di un certo tipo di piacere. Un piacere che oltrepassa il senso letterale dell'immediatezza dell'appagamento.

In consultazione sento genitori difendere i figli, giustificandoli in quanto, poverini, sono costretti a studiare cose che a loro non piacciono. Su una cosa, che pure lamentano, posso essere d'accordo: i prof non sanno ‘spiegare’ e non sanno trasmettere interesse.  Non tutti per fortuna.

Praticamente molti covano la convinzione che l'oggetto dell'insegnamento debba mascherarsi sotto le mentite spoglie della barzelletta o di racconti ameni. Che la nozione debba essere ben omogeneizzata per essere imboccata all'alunno. Come la mettiamo ora che wikipedia praticamente è in grado di omogeneizzare e perfino condire? Internet soddisfa la curiosità, ma non nutre l’interesse. Questo, è vero, é un ingrediente necessario per apprendere, ma non risiede nei contenuti ma in una certa bisognosa disponibilità del discente.

Il piacere non riguarda l'oggetto da apprendere (anche se ci sono contenuti che suscitano curiosità) ma la funzione mentale stimolata. Io devo provare piacere a imparare una cosa in più; pardon, non una cosa/nozione ma il gioco del montare un puzzle, del capire come funziona il gioco del mescolare le carte di ciò che apprendiamo per creare un nuovo sapere. O anche per il semplice gusto di saper pensare cose nuove da solo.

Comunque queste riflessioni non pretendono di insegnare niente. Ne parlo per non interrompere il dialogo con i tanti genitori che frequentavano i nostri seminari del sabato in Artelieu ed ora sono in lockdown. Io non ho un metodo spendibile da tutti, ma parlare e accendere opinioni sui problemi porta a risolverli. 

Penso sul senso delle esperienze fatte e mi tengo impegnata a fare come esercizio i miei puzzle mentali. A me la scuola è servita così com'era e so bene che oggi non ha senso reiterare quel modello visto che abbiamo un sapere tascabile sui nostri cellulari. Perciò mi chiedo legittimamente: a cosa serve la scuola oggi? O meglio: cosa 'serve' la scuola oggi ai nostri figli per nutrirsi?

Il covid e l'insegnamento a distanza, la dad, ci dimostrano che il processo dell'apprendere non è prerogativa esclusiva di ciò che accade in un edificio. Sebbene gli edifici scolastici, oltre il senso dell'etimologia di edificare, hanno uno scopo ben preciso...perfino irrinunciabile: il non potere accedervi funge da ‘castrazione’.

Non abbiamo mai pensato che solo i divieti attualizzano la nostalgia. E non capiamo che perché il desiderio ci sia ci vuole la legge paterna, la frustrazione. Questa rende possibile il desiderare. Ma, al contrario, noi adulti colludiamo con i giovani e impediamo che la frustrazione faccia il suo lavoro: accrescere il desiderio o quanto meno non atrofizzarlo. Assecondiamo la ricerca del godimento a tutti i costi. Il genitore, l’insegnante, che una volta erano nel miraggio per la ricerca di approvazione, hanno perso valore. Ogni cosa oggi sostituisce l’amore per un ‘oggetto’ umano: la droga, l’alcol, le dipendenze, il godimento immediato. Tutto fine a se stesso. Rimpiazziamo l’incontro faticoso con l’Altro. La causa della crisi educativa, dunque, è lampante: i genitori vorrebbero essere migliori dei loro padri, ma nel fraintendimento che essere migliori significhi essere ‘buonisti’ irrimediabilmente accondiscendenti alla soddisfazione immediata che il figlio chiede. I genitori vivono nel terrore di non essere amati, eludono il ruolo normativo frustrante e cercano coi figli l’amicizia collusiva.

Come vogliamo ripensare il ruolo genitoriale e dell’autorità, compresa la scuola, in genere?

Non certo come copia-incolla del modello del passato, ma con la trasmissione del desiderio e del codice affettivo indispensabile alla costruzione di una vita simbolica. E’ la vita simbolica che funge da intercapedine tra desiderio e consumo sfrenato dell’oggetto; crea lo spazio-fantasia del desiderare l’oggetto e permette di sostare nel desiderio.

Visto che sappiamo parlare col nostro cane o col nostro canarino, forse è utile saper parlare col trascendente che è in noi, sempre più sbiadito. L’evaporazione del padre e del senso del riconoscimento di ogni autorità ha spento la voglia di apprendere perché a nessuno riconosciamo la possibilità di insegnarci. E siccome la vedo dura penso che l’insegnamento non può più ancorarsi alle parole ma alla ‘testimonianza’. I padri e le autorità varie riprendano la loro autorevolezza con gli atti. Facciano il gesto ‘epico’ testimoniante il senso di responsabilità nei confronti del desiderio. Auguriamoci soprattutto, visto il momento storico, di reincontrare uno sguardo in un corpo vivo senza ricorrere ad un click su una tastiera.

I genitori e la scuola, prima della didattica, trovino il modo di iniziare i ragazzi alla ricerca del mistero della vita e della morte, cerchino di iniziare i giovani a ‘pregare’, non come è stato insegnato a noi con litanie e formule vuote, ma a pregare come sapersi inchinare umilmente di fronte al mistero e a saper ringraziare.