---
© Dominique Fortin

“Non essere la fiamma ma la legna”

 Bisogna diventare materia per l’invenzione, mettersi a servizio della creatività.

Non usare le parole, ma la voce, non le immagini ma l’immaginazione ... restare aperti, essere dei canali di transito, tenere pulito il campo dell’incontro, giocare senza alcuna finalità, fare spazio, usare i limiti della propria personalità per far emergere e brillare la stella della propria identità.

(di Giuseppe Ruggiero)

Questa poesia racconta quello che io sento di poter fare nella relazione terapeutica: essere materia, legna per il fuoco, canale di transito, per mettermi al servizio della creatività dell’altro.

L’approccio che utilizzo è quello della Psicoterapia Psicodinamica, declinata con tecniche psicodiagnostiche e psicoterapeutiche multimodali, non solo basate sulla parola; significa che presto attenzione alle dinamiche interne ad ogni individuo, alle forze mentali inconsce che sono in movimento (e spesso in conflitto tra loro), senza trascurare le relazioni nell’ambiente di vita e la risposta del corpo attraverso voce, respiro, rigidità muscolari, sintomi fisici.

La terapia psicologica non può essere una attività rigida, richiede flessibilità e personalizzazione dell’intervento per individuare il percorso più idoneo per le risorse della persona e la fase di vita che sta attraversando. Per questo, lavorando sia con bambini che con adolescenti ed adulti, utilizzo sia modalità verbali che non verbali nel mio lavoro, integrando al dialogo verbale tecniche di mindfulness, immaginazione attiva e arteterapia, quando necessario. A volte l’inconscio può dare ispirazione abbandonando il registro della parola e del ricordo e farsi strada attraverso una creazione artistica che trova forme al di là di ogni nota significazione e di ogni codice sintattico.

Ho approfondito nel corso della mia formazione e della mia crescita professionale varie teorie: l’Analisi Transazionale di Berne, la teoria umanistica di Rogers, la PNL di Bandler e Grinder, la teoria costruttivista di Guidano e Liotti, la teoria Bioenergetica di Lowen, la Gestalt-therapy di Perls, la teoria autopoietica di Maturana e Varela, le teorie psicoanalitiche di Freud e Jung, quella di Hillman e poi quella ancora più rivoluzionaria per me di Bion, la teoria del falso sé di Winnicott, la teoria dell’Oggetto Originario Concreto di Armando B. Ferrari, la teoria dell’attaccamento di Bowlby, le neuroscienze affettive, la teoria del codice multiplo di Wilma Bucci, la teoria dei neuroni specchio di Rizzolatti e quella della simulazione incarnata di Gallese.

Il mio approccio integrato ed eclettico nasce da un percorso di ricerca personale, per rispondere alla percezione di inadeguatezza di alcuni strumenti nell’incontro con i miei pazienti, per colmare i limiti che alcuni orientamenti possono presentare e per superare il dogmatismo con il quale alcune teorie vengono proposte; apro domande più che cercare risposte, cerco esperienze e occasioni di confronto costante tra le teorie più diverse e l’esperienza clinica.

Nella relazione col paziente cerco di costruire un ambiente sicuro, in cui sviluppare una buona alleanza terapeutica, e di accompagnarlo con cura e rispetto a conoscersi sempre di più per poter utilizzare al meglio le proprie capacità e i propri talenti.

Non vi dirò quali sono i sintomi o le patologie che tratto (come vedo fare in giro dai colleghi), perché non mi preoccupo dei sintomi ma delle persone nella loro interezza. Un intervento psicoanaliticamente orientato, anche se di breve durata, non si rivolge direttamente al sintomo perché il sintomo non è un’entità da descrivere e classificare, come fa da sempre la psichiatria, ma un elemento da contestualizzare nella storia di significato e senso che il paziente costruisce inconsapevolmente nella malattia; non è un elemento da “eliminare” perché patologico a priori, bensì diventa un elemento che offre significati importanti al malessere portato dal soggetto, una comunicazione che ci dice qualcosa di quella persona, della sua struttura, che ha una sua funzione comunicativa.

La psiche crea malattie, stati morbosi, disordini, anormalità e sofferenze quando non è più in grado di immaginare la vita se non attraverso questa prospettiva deformata e tormentata che è il sintomo. La patologizzazione non è solo presente in particolari momenti di crisi, ma esiste nella vita quotidiana di ciascuno di noi. Essa si mostra in tutta la sua profondità nel senso della morte, che l’individuo porta con sé ovunque vada. E’ presente anche nel sentimento interiore che ciascuno ha della propria diversità, il quale include (e su di esso anzi a volte si fonda) il senso della propria individuale pazzia. Ciascuno di noi ha infatti una propria fantasia di malattia mentale. Anche se nessuno ce lo dirà mai, abbiamo un debito immenso verso i nostri sintomi. Senza di essi non potremmo avvicinarci sempre di più a noi stessi. Come dicevo metaforicamente a inizio della mia descrizione, il terapeuta è la legna che tiene accesa la fiamma sotto al recipiente in cui cuoce il processo psichico del paziente; deve fare molta attenzione perchè non si spenga, ma anche che non bruci troppo violentemente, affinchè il contenuto sia appetibile e digeribile.