Oltre la parola in psicoterapia

Barbara Cipolla

(convegno GEST-AZIONI IL CORPO IN ARTETERAPIA Pescara, 27 aprile 2019)

Quando si comincia a scrivere, succede che si parta da alcune affermazioni e se ne rimanga prigionieri; una certa tendenza alla coerenza e alla sincerità ci obbligano a non contraddirci. Qui sta il dramma di ogni riflessione strutturata - ci ricorda il filosofo Cioran (2004) -: che non permette la contraddizione. Un pensiero frammentario riflette tutti gli aspetti dell’esperienza, un pensiero sistematico ne riflette uno solo, e risulta perciò impoverito.

Proverò a raccontarvi della mia esperienza clinica e a entrare nel discorso attraverso la parola, anche se le mie riflessioni vagano “a cavallo” tra la parola detta e quella evocata, tra l’immagine interna e quella esterna. Non cercherò la coerenza ma piuttosto una apertura verso nuove domande che rispecchino la complessità dell’essere umano.

Chi, come me, pratica la psicoterapia ad orientamento psicoanalitico, tende a dare rilievo al testo “latente” del paziente, nascosto in un messaggio manifesto.

La mia esperienza clinica, che procede parallelamente alle nuove scoperte nel campo della psicoanalisi e delle neuroscienze, mi ha portato a dare rilievo nel tempo più a un testo da costruire nella coppia analista-paziente che al non detto inteso come inconscio strutturato e rimosso (non modificabile) da svelare.

Freud diceva che si può accedere all’inconscio “accecandosi artificialmente”, Bion parlava di “oscurità” riferendosi ad esso; insomma siamo tutti d’accordo che abbiamo a che fare in analisi con luoghi della mente dove si formano abbozzi di emozioni sconosciute, parti non ancora nate del proprio sé, con una forma prelogica di conoscenza. Ma pretendiamo di rappresentarli verbalmente!

Wilma Bucci (2009) ci ricorda che il linguaggio verbale è il veicolo principale della psicoanalisi pur non essendo il veicolo primario del pensiero né tantomeno dell’emozione.

Per poter prestare all’inconscio (entità dotata o priva di parola?!) mezzi espressivi compatibili, diventa necessaria nella coppia una creazione di linguaggi ampia e multiforme, attraverso forme linguistiche, figurative, poetiche, artistiche.

Le persone che manifestano più difficoltà proprio nel passaggio dal corporeo al mentale, possono giovarsi, nella relazione, di linguaggi alternativi, più primitivi e meno elaborati di quello verbale, che possono saltare il filtro della coscienza e, attraverso una mediazione artistica, riuscire ad esprimere istanze altrimenti inaccessibili.

La parola per alcuni è una sponda ancora troppo lontana, incapace di offrire immediatamente un sostegno, di riflettere, di dare senso e “pensabilità” all’esperienza umana, nelle sue tappe e vicissitudini traumatiche e dolorose (Bagni, 1993). Nello sviluppo umano il linguaggio verbale “arriva tardi”. Il suo ordine simbolico può essere un traguardo lontano, accidentato, incapace di contenere, in prima istanza, l’urgenza, l’incandescenza o l’opacità dei vissuti.

Coloro che, come me, cercano di declinare l’arte dell’ascolto psicoanalitico attraverso tutto l’arcobaleno dei codici espressivi, sono spesso oggetto di sguardi ambivalenti e sospettosi da parte dei colleghi. La Psicoanalisi non è solo archeologia del trauma, o processo indiziario, o luogo di narrazione di contenuti mentali che sono già lì pronti ad essere riportati in superficie. In fondo chi lavora con i bambini sa come le psicoterapie infantili abbiano ridefinito l’azione terapeutica come uno spazio/tempo/relazione dove sono possibili giochi di costruzione con le forme mentali elementari che prendono man mano una forma simbolica commestibile per la mente, attraverso giochi, colori, gesti e suoni “per dirlo”.

La sapienza greca antica riconosceva al ritmo del corpo, alla voce, allo sguardo, al gesto, prima ancora che alla parola, una valenza di matrice dell’identità umana. Per elevare l’impulso emotivo a via dello spirito i Greci seguivano due vie, una filosofico-religiosa e l’altra artistica. Il dio Dioniso in Grecia aveva il compito di stimolare la sublimazione delle passioni. Dioniso era il dio dell’estasi, dell’ebbrezza, della liberazione dei sensi, rappresentava la vita fremente, nella sua originale bramosia e creatività, che veniva espressa con l’urlo primordiale della voce taurina che pian piano diventava voce umana. Attraverso l’arte e la danza nasceva la sapienza umana, si frenavano gli istinti per trasfigurarli in parola, in tragedia, racconto, canto. Apollo interveniva a moderare e rendere feconda la vita fremente, la vitalità primordiale, educandola. Già i Greci (ai tempi di Eschilo ed Euripide) avevano capito che senza arte non c’è civiltà, che l’arte è la produzione dell’”umano”.

Il filosofo Garroni (1978), nel pensare la “creatività” come funzione adattativa e dunque biologicamente fondativa dell’essere umano, si misura con la creatività dei codici, in particolare della lingua – come egli stesso sottolinea - per mettere in luce che l’idea di creatività è la stessa a rendere possibile il codice, facendo così dipendere la costituzione del codice da una attività di pertinentizzazione.

“Esiste un’enorme zona d’ombra in cui solo la letteratura e le arti in genere possono penetrare, di certo non per illuminarla o rischiararla, ma per percepirne l’immensità: è come accendere una fiammella che perlomeno ci consenta di vedere che quella zona è lì e di non dimenticarlo” (J. Marias, 2005).

Paziente e psicoterapeuta, attori e scrittori del romanzo analitico, possono sperimentare non solo la parola, ma anche il segno e il gesto, metafore ancora mute, cellule primordiali, materiali di costruzione di una co-evoluzione maturativa, capaci di sostenere, anche in situazioni particolarmente sfavorevoli, lo sviluppo di una conoscenza, riflessiva e consapevole, delle potenzialità e dei limiti della “prosa umana” (Boccalon, 2007).

L’approccio arteterapeutico ad orientamento psicodinamico che noi in Artelieu proponiamo non vuole essere una psicoanalisi dell’arte ma piuttosto un tentativo di recuperare quel fare e pensare artistico che ha costituito la prima forma di autentica conoscenza dell’animo umano; la convinzione che sostiene il nostro approccio è che l’arte sia una fonte generativa del pensiero analitico e oggi, al tempo delle neuroscienze e del materialismo organicista e con la crescente diffusione di patologie narcisistiche, possa essere anche il suo principio rigenerativo.

Provo a raccontarvi un mio caso clinico. Annamaria, le sue mani “sanno” quello che lei non ancora sa (Grignoli, 2019).

L’arte non serve a dimenticare, serve a ricordare. E la coscienza del ricordo permette di passare ad altra cosa del vivente, del presente, del divenire. (Alechinsky)

Questo pensiero di Alechinsky e la sua scrittura con il pennello mi riporta ad Annamaria, una donna seguita fino a poco tempo fa.

Passiamo intere sedute in silenzio, le lacrime sono l’unica forma di comunicazione tra me e lei. Annamaria, 35 anni, chiede una consultazione, lei non sa neanche dell’esistenza dell’arteterapia. Dopo aver raccontato la sua storia, che vive con i genitori, che è una delle tante laureate disoccupate, che non ha mai avuto relazioni sentimentali, che fa volontariato, non sa che altro dire. Alla domanda: perché vuol fare terapia risponde che vuole un aiuto perché ha una paralisi delle sue azioni, non sa fare delle scelte, e che è completamente ingoiata da emozioni senza nome. Il resto è storia. In ogni successiva seduta sta in silenzio e piange sommessamente. 

Se sollecitata da specifiche domande riesce a dire che ha paura, che non sta bene, a raccontare (si fa per dire) qualche ‘schizzo’ della sua vita quotidiana, sono rapide immagini che scorrono come diapositive prive di collegamento; se le viene chiesto di soffermarsi su una di queste immagini, la risposta è “non lo so”. Ho l’impressione che tutto accada in lei emotivamente ma poi non va ad iscriversi nella consapevolezza.

Dal mio bisogno di contatto, di vicinanza, e dalla mia propensione a farle “maternage”, mi rendo conto che la sua regressione è tale che la parola non può sostenerla. Non esiste ancora in quella zona in cui si è rifugiata e comprendo che i miei sforzi saranno vani se insisto ad attendere gli effetti di una simbolizzazione mai avvenuta. Lei parla del e attraverso il corpo. Ne parla come di un oggetto di cui non sa decifrare quello che ha da dirle, anzi vive i sintomi come una fatalità di cui sbarazzarsi al più presto.

So che faremo uno sforzo enorme.  La sua lingua non conosce altro vocabolario che quello dei sintomi, non nomina le emozioni ma gli effetti, ovvero non sa ancora riconoscere cosa le accade dentro da farle uscire tante lacrime. Si aspetta da me una spiegazione del perché sta male. Almeno così dice. Penso che abbia bisogno di una madre che pensi i suoi pensieri. Appena una emozione la tocca, escono lacrime, mai le parole.

Ecco perché decido di ripartire dalle origini, dalle sensazioni corporee elementari. Metto al lavoro il corpo e inizio dalla costruzione del dizionario delle sensazioni, affinché le immagini-sensoriali possano divenire parole, dunque simbolizzazione.

Scopro che le piace il bricolage; usa molto le mani e ama i lavori manuali, ma anche in questa necessità di ‘manipolare’, non riesce a portare a termine: iniziare è possibile, concludere no. Mi sembra una buona pista da seguire quella di aiutarla ad assumere il senso del tempo che trasforma le cose.

Decido per continuare le nostre sedute individuali con la mediazione artistica, ovvero introduco i materiali per fare dei laboratori di arteterapia. Lavorando in piedi, entrambe al tavolo da lavoro, il suo corpo assume un’altra qualità di energia rispetto a quando era seduta, accasciata, ripiegata su di sé, quasi come in una culla. Iniziamo a lavorare entrambe con le mani, senza parlare inizialmente; la vedo maneggiare con grande abilità e cura prima l’argilla e poi passeremo ad altre consistenze tattili, quali le stoffe, cartoncini, legno, sabbia… Io sono davvero meravigliata dalla forza e dalla sicurezza delle sue mani; la osservo con ammirazione. Solo con le mani si autorizza ad esprimere emozioni. Ripenso a Brecht e i suoi studi sulla distanziazione, quando dice che la distanza fa sviluppare due forme d’arte: l’arte drammatica e l’arte dello spettatore. Non riguarda solo il teatro. Quando lei produce le sue forme di argilla crea uno spettacolo-sogno e la distanza permette a me, spettatore, di fare la mia personale ricerca. Ero con lei attrice e spettatrice. Solo questo mi ha permesso di comprenderne il discorso. Mi ha fatto provare nel mio corpo l’indicibile intollerabile che lei tratteneva nel suo. Si esprimeva con tagli, spezzettamenti, carezze e allisciamenti. Il nostro dialogo si è localizzato in questa forma. Ho provato il sadismo, la tristezza, la tenerezza e l’orrore. E tutto ciò che commuove nella gioia e nell’orrore l’ho provato nell’incontro con lei per la risonanza che avevano in me. E così come cercavo di organizzarle dentro di me, allo stesso modo l’aiutavo ad organizzarle dentro di lei. Perché davo un nome ai vissuti. Questo è il ‘teatro dell’intimo’.

Le sue mani “sapevano” tutto quello che lei non sapeva ancora. Ci si si aspetterebbe una sorta di ‘traduzione’, capire quale desiderio esprimono le sue mani, invece la traduzione avviene da un corpo all’altro nel senso latino di ‘tradere’.

Dopo parecchie sedute arteterapeutiche di ‘traduzioni’, ecco apparire parole. Sono nuove per lei che inizia a differenziare le varie sensazioni corporee che le provocano i diversi materiali, usiamo pochi attrezzi inizialmente; mani che impastano, mescolano, spalmano, afferrano, esplorano gli spazi usati come supporto, inizialmente con molti tentennamenti, balbettamenti, poi sempre più convinte nel cercare quello che vogliono. Si confronta con il morbido, con il duro, con il liquido sfuggente, con la vischiosità, con il piacevole e con lo sgradevole. Si appiccica e si spiccica. Il ricorso all’ ‘adesività’ trova le parole per dirlo. Scopre che quello che si attacca vive del suo supporto. Che le cose incollate troppo forte non possono staccarsi facilmente, non possiamo ‘riposizionarle’.

Arriviamo alla seduta in cui ha a disposizione un grande foglio di due metri per due appeso verticalmente alla parete con delle puntine, trova accanto dei pezzetti di fusaggine di diverso spessore e durezza. Lei utilizza i primi due fino a quando non sono completamente esauriti sul foglio e poi si ferma, con una espressione un po’ delusa. Non dice nulla. Io aspetto un po’ e le chiedo se ha terminato o vuole proseguire. Lei, stupita, si gira sorridente verso di me e mi dice: “Perché? Posso usarne ancora? Io non credevo fosse possibile! Sì, certo, voglio continuare!”

Io le chiedo perché non avesse chiesto lei ciò che ancora desiderava (ce n’era una scatola piena davanti a noi sul tavolo). Così mentre disegna sul grande foglio, lentamente, con voce bassa ma ferma, emergono parole che sembrano essere nate lì in quell’istante davanti a noi: “Io non chiedo… penso che non c’è mai niente per me… ho paura che siano cose sprecate… che quello che faccio non ha senso, non ha valore…”. Mentre le offro altra fusaggine, le dico: “Tutto ciò che fai ha sempre il valore che tu dai alla tua vita.  Tu sei qui, sei viva, ti guardi fare… L’argilla e la fusaggine sono state le tue prime parole che hai ‘messo in forma’”.

Si commuove quasi, ma questa volta non si chiude e ripiega su di sé in silenzio, come accadeva nelle sedute vis a vis sul divano, prosegue il lavoro di mani e riprende forza nel gesto pian piano ed esclama: “Non pensavo mi piacesse così tanto formare!”.

Il lavoro di psicoterapia a mediazione artistica proseguirà ancora per un anno dopo questa seduta. Scoprirà la grande passione di riciclare oggetti rotti o spaiati e vestiti strappati e usurati per renderli di nuovo ‘vivi’ e utili. Capisce man mano che questa attività è per lei fondamentale per affrontare l’angoscia della fine e della morte. Una attività di riparazione costante la sua, che prima ‘agiva’ nell’interrompere ciò che iniziava per ritardarne la fine. Non elaborava per trovarne nessi e significati pensabili, adesso è una strada percorsa anche con il pensiero; dopo questo anno di lavoro con il corpo per arrivare al simbolo e alla dicibilità, abbiamo proseguito con la psicoterapia basata sull’uso della parola, con nuovi strumenti a disposizione e un vocabolario di immagini e parole molto arricchito e fruibile.

Le espressioni artistiche possono offrire, a tutti, strutture pre-logiche per sviluppare capacità simboliche e lingue adatte a comunicare esperienze interiori.

La mente umana si può appoggiare, lungo la strada, a forme primitive di conoscenza e di comunicazione, come a veri e propri oggetti di transizione, utilizzando anche le “metafore mute” della produzione estetica (Ancona, 1995).

Bion (1973) parla a questo proposito di una conoscenza che prende forma solo all’interno di un rapporto complesso e soprattutto grazie alle immagini, prime traduzioni di emozioni vissute; egli  propone una “funzione artista” dell’analista ovvero una funzione analitica in grado di sostenere con la propria creatività l’“artista interno” dell’analizzando, colui che edifica la propria mente; intendendo con questo la capacità di concentrare la storia dell’analisi in un solo punto, il qui ed ora dell’incontro, eliminando memoria, desiderio e comprensione, per comunicare efficacemente in un nuovo atto comunicativo. Su questa lunghezza d’onda, Armando B. Ferrari (1998) sostiene che l’analista conosca solo quello che contribuisce a creare nel momento della seduta. L’unico strumento di cui l’analista dispone per avvicinarsi all'analizzando è utilizzare lo stesso registro di linguaggio, inteso come una originale modalità comunicativa che implica il modo in cui ognuno costruisce la realtà. L'individuo dispone di diverse modalità espressive di cui la componente linguistico-verbale è solo una parte.

Il linguaggio delle arti può accogliere, trasformare e rendere intellegibile l’esperienza sorgiva, il caos emotivo originario e inconsapevole da cui sorge ogni volta un ordine affettivo/cognitivo che può essere sempre più articolatamente strutturato. I linguaggi ordinari talora perdono di vista questo livello costituente o addirittura l’occludono. L’esperienza clinica ha portato ad un ribaltamento di prospettiva nel rapporto tra psicoanalisi ed arte (Di Benedetto, 2000). La consapevolezza dei propri vissuti non è, però, di per sè arte; per l’attuazione di tale trasformazione è necessario un atto creativo, inteso come superamento del sentire personale.

Superamento che ha a che fare con il processo creativo per Bion (1963), che consiste più in un “divenire” che in un “conoscere” ; le trasformazioni implicate sono trasformazioni in O (contatto con l’esperienza originaria), contengono i momenti germinativi dell’esperienza emozionale, quelli più ricchi di potenzialità evolutive.  Riprendendo l’idea bioniana di trasformazione dell’esperienza emozionale inconscia, anche Resnik (1995) punta alla valenza “trasformativa” della sublimazione: vede la sublimazione come uno spostamento, una trasformazione, un processo di astrazione.

Penso all’applicazione clinica di questa forma di intervento quando abbiamo a che fare con i nuovi sintomi individuali e sociali che negli ultimi anni si presentano sempre più inquietanti e difficili da analizzare con gli strumenti tradizionali a disposizione degli analisti, e che ci obbligano a pensare in modo nuovo: la deriva perversa nelle relazioni, il modo egocentrico di concepire se stessi e gli altri, le patologie narcisistiche. L’impressione generale è quella di una ‘maniacalizzazione’ dell’esistenza. Penso, di conseguenza, a una psicoanalisi che “scenda dal lettino” (P.C. Racamier, 1982), pur conservandone tutte le caratteristiche e non snaturando il suo valore, e che aiuti a elaborare la perdita dell’onnipotenza.

L’arte, come procedimento conoscitivo, ma anche riparativo e ricostruttivo, offre la possibilità di entrare in contatto con le sensazioni e il vissuto corporeo, di attingere al non noto in modo meno angosciante del discorso verbale, di aprire questa possibilità di smontare le percezioni “ovvie”, automatiche, svuotate, e di svelare l’interiorità velando l’orrido attraverso un gesto estetico. “La bellezza non è altro che l’inizio dello spaventoso” (R.M. Rilke). Il linguaggio artistico offre un nuovo ordine in cui si può fare l’esperienza della realtà inconscia, senza tensioni.

Un’altra vignetta clinica: Francesca sembra non possedere un lessico adatto a descrivere quello che le accade dentro. Vedo davanti a me un sipario bidimensionale. Guardandola, noto che mostra una facciata sempre forzatamente coerente con quanto dice ma dissonante nelle sensazioni che mi provoca fisicamente. Lo sguardo è sempre meravigliato e non mostra mai una presenza da dentro, il sorriso è spesso in contraddizione con quanto avverto negli altri movimenti del suo corpo e nel mio vissuto. La simpatia che fa di primo acchito, nel tempo si è rivelata un modo di bloccare il mio pensiero; si mostra tenera, dolce e spaesata, con uno sguardo molto seduttivo da bambina che mi mette ko. Una delle prime volte che la incontro provo una forte sensazione a livello corporeo, avverto una sensazione di nudità addosso, come se mi avessero privato di uno strato, di una copertura, di un guscio, e mi compare alla mente un ricordo personale di quando per la prima volta ho guardato mia figlia, nata pretermine, nella culla termica, e non ho potuto toccarla: anche lì, guardando la delicata e tenera nudità della bambina, ho vissuto specularmente quella sensazione di essere senza guscio. Solo alcuni mesi dopo l’inizio della terapia, la paziente mi porta in seduta dei suoi disegni raffiguranti un uovo in tante chiavi differenti sempre più mimetizzate, dopo qualche mese quelli di una donna raggomitolata in un guscio-utero. Me li mostra e li guarda estasiata davanti a me, come se non fossero i suoi, e soprattutto con la meraviglia di chi guarda un grande mistero che non ha necessità né possibilità di essere rivelato. Le associazioni e i commenti scaturiti dal guardare insieme i suoi disegni le hanno offerto una capacità nuova di gestazione e germinazione di un pensiero, hanno aperto sentieri inesplorati verso un mondo di emozioni buie e dolorose fin ad allora negate. Nel tempo sono cambiati i tratti, i contenuti, i modi, le forme, del disegnare e del parlare.

In questo caso ad esempio non avevo iniziato proponendo l’arteterapia, è stata la paziente (che dipinge per professione) a portare spontaneamente immagini concrete in seduta. Inizialmente sia io che la paziente ci eravamo adagiate in una routine “an-estetica”: la parola sembrava scorrere fluida e leggera senza intoppi ma ci aveva anestetizzato. Una attenzione esteticamente orientata ci ha consentito di andare al di là del già detto, già visto, già udito. Le immagini hanno funzionato come una sonda, come strutture pre-logiche per sviluppare capacità simboliche e linguaggi adatti a comunicare esperienze interiori. Un vissuto preverbale si è incarnato in immagini concrete per essere comunicato: immagini che possono essere polisensoriali, una fusione di diverse percezioni (visive, uditive ecc.), un coagulo del sentire che non può essere detto altrimenti se non tradotto in sinestesie, colori, gesti o azioni.

Quella parte di esperienza, che di solito chiamiamo ineffabile, può essere in parte afferrata grazie a un affinamento delle nostre capacità di ascolto, capacità legate a una dimensione sensoriale, non solo uditiva, ma di tutto il corpo. Come una madre sente sulla pelle quello che prova il suo neonato, conoscere un altro essere umano significa anche recepire somaticamente stimoli gustativi, olfattivi, tattili ecc. che lo colpiscono. Questa sensibilità estesica e una immaginazione di tipo artistico nel terapeuta possono facilitare una sorta di insight preverbale di esperienze non ancora rappresentabili mentalmente.

L’analista, affinando la sua recettività estetica e ponendo l'attenzione su dati sensoriali, che fanno parte di un campo sensoriale comune, può offrire alla mente dell’analizzando l’occasione di ascoltare e dare voce a parti inesplorate di sé, costruendo immagini, storie, metafore insieme a lui, può aiutare l’analizzando a “sentire”, prima ancora che a verbalizzare, qualcosa di non organizzato dentro di sé.

Salomon Resnik (1994) a questo proposito parla di intelligenza “senziente” dell’analista, di una esperienza relazionale tra analista e paziente in cui si intrecciano un contatto sensoriale, uno cognitivo e uno climatico. Intendendo con “contatto climatico” una reciprocità di vissuti non necessariamente identici ma facilmente integrabili.

Nell’arteterapia psicodinamica è auspicabile una consapevolezza di quegli elementi sensoriali che passano nella relazione, ossia la componente estesica del rapporto. L’obiettivo è quello di allargare l’area della rappresentabilità, iscrivere nel campo percettivo cose che normalmente restano escluse, trovare il modo di modificare i codici per comunicare quanto è rimasto confinato nel pre-verbale; accogliere le prove di qualcosa che arriva ai nostri sensi, inventare continuamente nuovi mezzi, usare modo e forma di quello che accade (abbracciando l’area dei colori, suoni, immagini…), sono gli strumenti che abbiamo di ascolto a quel pre-verbale, ancora non dicibile. L'incontro analitico che utilizzi una réverie artistica può trasformare i sensi in “senso”, sublimare il corpo in parola, dare una forma pensabile e dicibile al caos e all’esperienza non mentalizzata.

L’analista dovrebbe essere insomma per il paziente quello che è l’artista per l’umanità: il precursore di una esperienza del proprio inconscio (A. Di Benedetto, 2000).

Riferimenti bibliografici

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  • Bion W. (1963), Trasformazioni – Il passaggio dall’apprendimento alla crescita, trad. italiana Armando 1973, Roma
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  • Garroni E. (2010), Creatività, Quodlibet, Macerata (ediz. originale del 1978)
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  • Racamier Paul C. (1996), Il genio delle origini. Psicoanalisi e psicosi, Raffaello Cortina
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